Fino a pochi anni fa, quando mi sono diplomato, gli studenti con difficoltà nell’apprendimento erano ancora discriminati in quanto “limitati” ed il sereno proseguimento della loro formazione era esclusivo appannaggio del buonsenso dei singoli docenti. Oggi sono un insegnante precario (e libertario) nella scuola inclusiva.
La Scuola Inclusiva
La legge 107/2010 riconosce i Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA) “che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana”: dislessia (difficoltà nella lettura o nella comprensione di un testo), disortografia (difficoltà nell’adeguare la propria scrittura alla norma ortografica), disgrafia (difficoltà nella produzione calligrafica) e discalculia (difficoltà nella memorizzazione o nell’applicazione delle formule matematiche). Insomma, la legge 107 dà il via a un censimento di tutti coloro i quali infrangono sistematicamente le ferree regole dell’algebra e quelle – molto più arbitrarie – della grammatica normativa, stabilendo come parametro una serie di “disturbi” la cui eziologia non è stata ancora verificata e che spesso (almeno nella mia breve esperienza in aula) rivela una ben più grave fragilità emotiva.
I “limitati” escono finalmente allo scoperto ed hanno la possibilità di ottenere un Piano Didattico Personalizzato (PDP) in grado di adeguare le modalità della propria formazione alle esigenze riconosciute tramite certificazione dell’ASL: per esempio, possono essere dispensati dalla lettura ad alta voce, dalla scrittura degli appunti o dallo studio mnemonico di definizioni o formule matematiche; nel corso delle verifiche, inoltre, possono usufruire di mappe concettuali, programmi di videoscrittura, calcolatrici, formulari, tempi supplementari e altri strumenti compensativi.
In nome dell’integrazione, la didattica individualizzata va incontro alle necessità degli allievi in difficoltà, sostituendo la flessibilità dell’integrazione alla rigidità formale della scuola autoritaria. Peccato che tutti questi provvedimenti rispondano soltanto all’esigenza di rimuovere questi presunti ostacoli al “successo formativo” dello studente, trascurandone del tutto le sfaccettature emotive. In altre parole: poco importano le implicazioni di tali disturbi nella vita complessiva dell’individuo, conta soltanto che essi non si traducano in una mancata ammissione dello studente all’anno successivo.
L’istituzione scolastica, insomma, mira ad rimuovere gli ostacoli accidentali, raggirando la sostanza di queste preziose differenze; invece di nutrire le potenzialità reali di questi studenti con metodi pedagogici, la scuola li sottopone a dei trattamenti aprioristicamente limitanti perché ritenuti più confacenti al loro presunto stato neurologico; piuttosto che fornire un’occasione di appassionata riflessione e ragionevole sfida ai propri limiti, ci si preoccupa soltanto di assistere l’ormai fu “limitato” nell’esercizio del proprio obbligo d’istruzione. Piuttosto che guardare la luna, la scuola si sofferma coscientemente sul dito, paga della propria miopia. Nell’anno scolastico 2016/2017 gli studenti con DSA certificati nella scuola italiana sono stati 254.614, pari al 2.9% dell’intero corpo studentesco: un numero che, al variare dei criteri diagnostici, è destinato ad aumentare.
Nel 2012, una direttiva ministeriale sancisce la nascita del grande calderone dei Bisogni Educativi Speciali (BES), in cui convergono gli studenti con disabilità, DSA e svantaggi di tipo socio-economico, linguistico e culturale: dall’integrazione si passa all’inclusione, dalla didattica individualizzata a quella personalizzata.
Al Servizio di Studenti e Genitori
Gli allievi con disabilità sono finalmente accolti con dignità nelle aule comuni, assistiti dai docenti di sostegno e impegnati in un programma educativo che non dovrà necessariamente fare i conti con quello della classe, ma piuttosto con le possibilità riconosciute nell’allievo stesso: una misura certamente condivisibile, fintantoché commisurata alle esigenze delle disabilità; eppure, presto applicata alla totalità degli studenti, essa finisce per rivelare la propria ambiguità.
Dall’anno scolastico 2018/2019, l’ennesima riforma degli indirizzi professionali fa propria la tendenza alla personalizzazione, estendendola a tutti gli studenti, nessuno escluso: a ciascun allievo sono assegnati degli obiettivi formativi adeguati alle proprie inclinazioni personali e alle modalità più confortevoli per il raggiungimento di una certificazione finale. L’educazione allo sforzo logico, all’umiltà socratica del “so di non sapere” ed allo studium in quanto passione ed entusiasmo sono definitivamente sacrificati in nome del successo scolastico, preteso sicuro perché garantito dai toni promozionali del Piano Triennale dell’Offerta Formativa (PTOF) di ogni istituto.
La mia impressione è che la tanto decantata didattica inclusiva non sia altro che una sorta di pericoloso cavallo di Troia che, insieme alla garanzia di un più sereno accesso alla formazione per tanti studenti, cova dentro di sé un paradigma scolastico prepotentemente lanciato a educare, rispettivamente, gli studenti al consumo e gli insegnanti al servile ruolo di burocrati e addetti alla vendita di competenze.
L’educazione personalizzata, dedita al successo formativo dello studente – vale a dire alla sua capacità di capitalizzare le competenze acquisite – sta di fatto trasformando l’istituzione scolastica tradizionale, statale e autoritaria in un centro di avviamento al consumo il cui programma educativo è quello di garantire la felicità dello studente più esigente: consumatore dei servizi educativi e insieme prodotto della scuola inclusiva. Dalla padella alla brace, insomma, dove i primi a cuocere sono naturalmente i docenti, obbligati a rendere conto e ragione dei possibili insuccessi: perché il cliente ha sempre ragione e se i genitori di un allievo reputano la prestazione didattica insoddisfacente ecco che, norme e ricorsi alla mano, corrono a lamentarsi presso il servizio clienti: gli uffici della dirigenza (sigh!) scolastica.
Recentemente ho provato a condividere alcune di queste considerazioni durante un incontro del Gruppo di Lavoro per l’Inclusione (GLI) dell’istituto in cui lavoro quest’anno. Il mio intervento è stato bruscamente interrotto da una rappresentante dei genitori che, dopo aver sciorinato il suo curriculum vitae ed accusatomi di tergiversare in uno sterile monologo, non ha nemmeno provato ad esporre la sua idea in merito all’argomento. Per questa madre, il fatto inaccettabile era che qualche docente non avesse sempre garantito le agevolazioni formalmente riservate a suo figlio.
Le Responsabilità dei Docenti-Operai
Temo che la stizza di quella signora sia stata dovuta alla sua incapacità di distinguere il piano teorico della mia opinione (la degenerazione della scuola inclusiva) con la pratica di certi insegnanti che, da sempre, se ne infischiano delle esigenze individuali degli studenti come suo figlio: i “limitati” che un tempo erano costretti al silenzio nella scuola autoritaria e gli studenti con certificazione sanitaria che adesso pretendono docenti infallibili, al servizio della loro riuscita scolastica.
Docenti sempre più diffidenti gli uni nei confronti degli altri, sottoposti alle regole della competizione, oberati di incarichi di carattere tecnico-burocratico e spesso contrapposti in due ampi schieramenti: i superstiti della vecchia “scuola (uguale) per tutti”, che spesso faticano ad adeguarsi al nuovo paradigma; i nuovi arrivati, gli avanguardisti della “scuola (al servizio) di ciascuno”, che pedissequamente razionalizzano ogni attività della produzione educativa, pianificandola e registrandone i risultati alla luce di griglie, tabelle, percentuali, descrittori, obiettivi, ecc.
Smarrito in questa variegata fauna scolastica, sento la mancanza di un coordinamento tra colleghi consapevoli che da quando la scuola è diventata una fabbrica di servizi siamo noi, docenti-operai, i primi corresponsabili della trasformazione dei nostri studenti in prodotti da distribuire al mercato del lavoro; pertanto siamo noi a doverci confrontare sulle trasformazioni in corso ed a promuovere sabotaggi educativi all’interno dell’istruzione sistemica.
Nelle aule di oggi, strette fra l’autoritarismo della scuola di stampo otto-novecentesco e la nuova educazione al successo e ai consumi, c’è ancora spazio per sperimentazioni libertarie tutt’altro che sterili e isolate. Immersi in un apparato educativo che mira a introdurre le nuove generazioni alla spensieratezza del consumo ed alla competitività professionale, penso che sia il caso di assumersi delle responsabilità: perché nelle rughe della vecchia educazione autoritaria affondino le nostre matite, prima che la scuola inclusiva corrompa definitivamente le buone intenzioni di un’educazione libertaria accessibile a tutti.
Salvatore Laneri